Storia
Chi ha inventato la macchina per scrivere?
È la domanda a cui vorremmo non rispondere, per evitare di incappare in verità parziali o mezzi errori. Per avvicinarci il più possibile alla realtà è indispensabile fare subito due distinzioni.
Una riguarda chi fabbricò industrialmente la prima macchina per scrivere (d’ora in poi abbreviata anche con mps) e la produsse in serie. Nel caso della produzione non poteva che essere un americano, Christopher Latham Sholes (Mooresburg, 14 febbraio 1819 – Milwaukee, 17 febbraio 1890) che, insieme ad alcuni soci, ne iniziò la costruzione e la vendita a livello imprenditoriale. Siamo a cavallo tra il 873 e il 1874. Il suo brevetto è datato 23 giugno 1868 e da questa data fino alla messa in produzione ci furono anni di progettazione e miglioramento. Sholes è stato anche l’inventore della tastiera QWERTY, quella che ancora oggi è utilizzata per qualsiasi computer, tablet, telefono e smartphone in buona parte del mondo.
La seconda distinzione riguarda tutti coloro che, dal Cinquecento in avanti, proposero strumenti per la scrittura meccanica. In questo caso invece i protagonisti sono stati diversi, ognuno con una propria particolare invenzione. Tutti apportarono un contributo più o meno elevato di genialità e innovazione e fra questi non potevano mancare anche alcuni italiani. Le cronache del Cinquecento riferiscono di un meccanismo inventato da Francesco Rampazetto, tipografo ed editore italiano attivo a Venezia, il quale, nel 1575, primo al mondo, cercò di far corrispondere i ciechi per mezzo di una speciale scrittura da lui attezzata “scrittura tattile”, costituita da dadi di legno montati su aste e recanti caratteri in rilievo formati da aghi metallici che, premuti, foravano il foglio lasciando incise le lettere. Nei primi anni del Seicento il giornale francese “Journal des savants” scrive che un certo Leroy di Versailles, orologiaio del Re Sole, avrebbe presentato a Luigi xiv una macchina per scrivere a leve. Il 7 gennaio 1714, in Inghilterra, il meccanico Henry Mill ottiene dalla regina Anna il permesso di brevettare uno strumento in grado di scrivere artificialmente. Purtroppo non si hann altre notizie attendibili su questo tentativo. Conosciamo solo il numero del brevetto, 385, e il titolo: “Una macchina artificiale ed un metodo per imprimere o trascrivere le lettere, singole o in progressione una dietro l’altra, così da concentrare tutto lo scritto sulla carta o sulla pergamena in maniera tanto chiara e pulita da renderlo indistinguibile da un’opera stampata”. Ma non vi sono né lettere scritte, né tanto meno un esemplare della macchina. Fu poi la volta del Typographer” dell’americano William A. Buri del 1829. Nel 1843 un certo Kohl fabbricò la “semisfera scrivente” che fu usata per molti anni nella corte regale d’Olanda. Nel 1833 il marsigliese Xavier Progin brevettò una macchina i cui i caratteri battevano dall’alto verso il basso, tirando degli uncini alle cui estremità erano collocati i caratteri, operazione non certo agevole e da farsi con relativa velocità. Concentriamoci ora sulle prove e sui documenti. Dalle ricerche effettuate sino ad ora, e in base alla nostra ricostruzione complessiva, riteniamo corretto asserire che il primo inventore di una macchina per scrivere così come la concepiamo oggi, di certo il primo italiano, sia stato il conte Agostino Fantoni di Fivizzano (Massa Carrara) che, nel 1802, inventò uno strumento di scrittura poi perfezionato da Pellegrino Turri, conoscente di famiglia. Successivamente, nel 1827, Pietro Conti costruì il tacheografo. Nel 1830 fu la volta di Celestino Galli di Carrù con il suo potenografo e, nel 1837, Giuseppe Ravizza di Novara iniziò la costruzione di prototipi che perfezionò in seguito. Portò il frutto dei suoi studi anche a esposizioni nazionali e internazionali, ma tuttavia non trovò mai un finanziatore che gli consentisse la costruzione in serie. Anche perché la macchina, che venne chiamata “cembalo scrivano”, a detta dello stesso Ravizza presentava sempre delle imperfezioni. Figurò tuttavia in varie esposizioni, fra cui quella di Londra del 1865, in cui molti giornalisti, anche all’estero, ne parlarono. È significativo il fatto che dopo quell’anno le macchine costruite da altri inventori avessero la stessa tecnica. Ne abbiamo vari esempi con l’americano Baech, che inventò una macchina a bottoni che scriveva su una striscia di carta. Così pure l’americano Samuele William Francis, con una macchina quasi identica a quella di Ravizza, il francese Carlo Guillemot che usò una tastiera di pianoforte, l’americano House e molti altri. Degno di nota è il danese Malling Hansen che, sempre nel 1865, appuntò i tasti su una sfera e la carta su un semicilindro. Oggi questa macchina è la più cara e ricercata al mondo, anche per la sua inconfondibile estetica. Nel 1864 a Parcines, vicino a Merano, oggi territorio italiano ma fino al 1918 impero austroungarico, il falegname Peter Mitterhofer costruì cinque modelli di mps che non ottennero attenzione dalle autorità.
“Recentemente un meccanismo molto ingegnoso è stato inventato da un giovane signore di nome Galli. Questo oggetto ci permette di scrivere più velocemente rispetto ad ogni sistema di scrittura a mano fino ad ora conosciuto, oppure rispetto alla velocità con la quale un oratore può parlare. Ma questo non è tutto. Si possono ottenere contemporaneamente molte copie di un discorso, scritto in modo leggibile […]. Come uno strumento musicale viene usata mettendo le dita sulla tastiera ed il manoscritto viene avvolto attorno ad un cilindro durante la scrittura. […] Il giudice sul suo seggio, mediante il suo uso, può prendere le deposizioni dei testimoni mentre la sua mente è intenta ad ascoltare la testimonianza. Con un po’ di addestramento perfino i ciechi possono usare uno strumento che permetterà loro di copiare in modo più veloce di chiunque scriva a mano. Questa macchina ingegnosa ha molti altri vantaggi, che, se verrà realizzata secondo le aspettative del suo inventore, produrranno grandi cambiamenti nel nostro attuale sistema di comunicazione scritta e telegrafica.”
Tratto dal libro MACCHINE PER SCRIVERE Uomini, storie e invenzioni dalle origini ai giorni nostri.
Nel 1867 Ravizza all’Esposizione Nazionale di Torino riceve dai giurati un riconoscimento non da poco:
“L’avvocato Giuseppe Ravizza ha dato prova di singolare ingegno nell’ideare ed eseguire la macchina per scrivere a tasti […] semplice agevole assai è il maneggio e l’esperienza dimostrerà se, come crede l’autore, un lungo esercizio possa renderlo altrettanto spedito sicché la scrittura da essa prodotta in rapidità superi nonché pareggi la scrittura a mano, e giunga persino a tener dietro a chi pensa.”
Tratto dal libro MACCHINE PER SCRIVERE
Uomini, storie e invenzioni dalle origini ai giorni nostri.
Foto brevetto Ravizza
@La chiocciola è recente o antica?
Gli italiani la chiamano “chiocciola” o “chiocciolina”, per la somiglianza al simpatico e lento animaletto. Per i russi la stessa icona assomiglia di più a un cagnolino. I greci ci vedono un papero. I tedeschi la assimilano a una scimmia che afferra un ramo. I coreani preferiscono pensare a un mollusco. I giapponesi la identificano come un vortice. Gli israeliani parlano di un dolce arrotolato. Chi vuol fare l’esperto la chiama “at”, all’inglese. Una cosa è certa: tutti riconoscono la famosa @ come segno identificativo di un indirizzo di posta elettronica. È nata nel xxi secolo? No di certo. Molte macchine per scrivere di fine Ottocento ne facevano già uso.
Chi ha inventato questo strano simbolo? In molti, ne sono certo, risponderanno a colpo sicuro Steve Jobs. Sbaglierebbero. Le sue origini sono invece tutte italiane e risalgono a cinque secoli fa. Una chiocciola esattamente uguale alla foggia che conosciamo e usiamo quotidianamente compare già in alcuni scritti commerciali e lettere di mercanti veneziani del Cinquecento. Ne ha trovato traccia un docente di Storia della Scienza dell’Università la Sapienza di Roma, il professor Giorgio Stabile. In origine il segno grafico della @ era un’abbreviazione di anfora, la tradizionale unità di peso e di capacità. Sì, perché nell’antica Grecia e nell’antica Roma era proprio un’anfora a essere riempita di prodotti, alimentari o non, e a servire da valore specifico di riferimento, da unità di misura, per l’appunto. E ancora la usano con lo stesso scopo spagnoli e portoghesi: l’arroba equivale in quei Paesi rispettivamente a quasi 31 libbre e a 32 libbre. Se intesa come unità di capacità dei liquidi corrisponde invece ai nostri 15 e 16 litri. In Francia si chiama arobase o arrobe e la sua origine etimologica è araba (ar-roub significa un quarto). Nel linguaggio contabile anglosassone, se seguita da un valore numerico indicante la quantità di moneta, la @ viene usata come commercial “at”, con il valore di “at a price of ” (al prezzo di). Proprio con questo significato se ne trova già traccia – presso la Biblioteca del Congresso americano – in alcune carte di George Washington: ricorre più volte in una fattura del 20 settembre 1779. Sempre con questo valore è tutt’ora in uso nelle transazioni di borsa via Internet.
L’introduzione delle mps nel mondo degli affari e del commercio ha poi inevitabilmente ampliato l’uso di questo segno grafico. Ma qual è stata la prima macchina per scrivere a introdurre nella tastiera il tasto della chiocciola? Già nella Caligraph n. 2 Commercial Model del 1883 si trova un tasto contraddistinto dal carattere @, con il valore commerciale di area anglosassone. Qualche anno più tardi fa il suo ingresso nella tastiera della mps Lambert del 1902, prodotta dalla Lambert Typewriter Company di New York. Come ha fatto a diventare il famoso logogramma adoperato per la posta elettronica che tutti conosciamo? Grazie a uno dei padri di Internet, l’ingegnere americano Ray Tomlinson (1942-2016): è stato proprio lui il primo a individuare un sistema di posta elettronica nel senso moderno del termine. Procediamo con ordine. Tomlinson lavorava per la Bolt Beranek and Newman, incaricata della progettazione di ARPANET – la progenitrice di Internet – per l’Arpa, l’azienda governativa dedita alle nuove tecnologie per uso militare. Va ricordato che all’epoca, i primi anni Settanta, erano già disponibili diversi sistemi di posta elettronica, ma presentavano un grosso limite: quello di consentire la comunicazione solo tra gli utenti della stessa macchina. In altri termini mittente e destinatario non potevano scambiarsi messaggi se erano collegati su sistemi diversi. Quasi per gioco l’ingegnere laureato al MIT pensò di ovviare alla lacuna progettando un sistema in grado di collegare in rete macchine che operavano su sistemi diversi. Nacque così SNDMSG (“send message” ossia “spedisci un messaggio”). Il suo programma ebbe inaspettatamente un enorme successo – non a caso viene definito il “Marconi dell’era informatica” – ma pose il problema di identificare in modo semplice e chiaro mittenti e destinatari dei messaggi. Inutile dire che fu lo stesso Tomlinson a porvi rimedio: bastava separare il nome dell’utente dal server che faceva le funzioni di cassetta della posta. Detto fatto, scelse la @ e nell’ottobre del 1971 spedì a se stesso il primo messaggio. Cosa contenesse purtroppo non è dato saperlo con certezza. Non lo ricorda neppure lo stesso progettista. In un’intervista dedicatagli qualche anno fa da Le Monde ebbe a dire: “Molto probabilmente il primo messaggio fu qwertyuiop e cioè la prima riga della tastiera americana”. Resta da chiedersi: perché proprio la chiocciola? A guardare una qualsiasi delle nostre tastiere solo pochi segni sono in grado di attirare davvero l’attenzione: £ $ % &, ma sono tutti e quattro già assegnati. Tomlinson non si lasciò incantare neppure da * e #, in seguito opzionati dalle società telefoniche. Quanto a #, il cancelletto, è diventato l’hashtag che tutti destiniamo ad altri usi. Ray si concentrò sulla @, vista su una telescrivente della American Telephone and Telegraph (AT&T), un carattere poco utilizzato e collocato sopra la lettera P. Probabilmente non sapeva neppure che questa chiocciola avesse una storia antica, semplicemente gli piacque.
Ecco svelato come, dalla fiorente economia della Serenissima, passando attraverso l’impero navale inglese e sfiorando il mondo arabo, la Spagna e la Francia, la chiocciola è finalmente sbarcata sulle macchine per scrivere e infine sulla rete: un viaggio lungo cinque secoli, ma terribilmente moderno.
Tratto dal libro MACCHINE PER SCRIVERE
Uomini, storie e invenzioni dalle origini ai giorni nostri.
Le macchine per scrivere, volàno dell’emancipazione femminile
Prima dell’invenzione della macchina per scrivere venivano riservate all’universo femminile opportunità lavorative davvero limitate: chi voleva uscire dalle mura domestiche, in cui tra l’altro rivestiva un ruolo subordinato, non aveva altra scelta che lavorare al servizio di famiglie abbienti, oppure nei campi, nelle fabbriche, nelle filande, nelle sartorie. Le poche ragazze istruite delle famiglie borghesi potevano al massimo aspirare all’insegnamento o a un impiego da infermiera.
Per tutte le prospettive di carriera o di avanzamento sociale erano comunque praticamente nulle, per non parlare dei livelli retributivi, decisamente più bassi rispetto a quelli maschili. Alla fine del xix secolo, nel nord-est degli USA, le donne che lavoravano come domestiche guadagnavano settimanalmente da due a cinque dollari, e quelle assunte in fabbrica come operaie da un dollaro e mezzo a otto: in ogni caso meno della metà dei colleghi maschi. Una situazione del genere era ovviamente il risultato di radicati pregiudizi sociali, ma anche di equilibri familiari ben consolidati. L’invenzione della macchina per scrivere e la sua lenta ma inesorabile introduzione negli uffici diede invece alle donne un vero e proprio volàno occupazionale nel settore terziario, con una conseguente ricaduta positiva sia sul piano sociale, che a livello di indipendenza economica. Lo stesso Christopher Latham Sholes, titolare del brevetto della tastiera QWERTY, era ben consapevole d’aver contribuito a un simile salto di qualità.
Del resto la stessa figlia Lilly aveva approfittato della nuova opportunità imparando a battere a macchina, sotto dettatura dell’illustre padre, le lettere che questi inviava ad amici e colleghi. Viene considerata ancora oggi la prima dattilografa della storia. Prima di morire Sholes ebbe a dire – era il 1890: “Sento di aver fatto qualche cosa per le donne che hanno sempre dovuto lavorare così duramente. [La macchina per scrivere] permetterà loro di guadagnarsi da vivere più facilmente”.
Non a caso nel 1932 si meritò a posteriori l’epiteto di “salvatore delle donne”, per i profondi cambiamenti sociali indotti sull’universo femminile del mondo occidentale. È improbabile che l’inventore americano avesse progettato la macchina per scrivere con la consapevolezza e l’intento di dare inizio all’emancipazione femminile, ma di fatto fu proprio così. L’invenzione favorì in modo considerevole l’ingresso del sesso debole nel mondo del lavoro, anche perché nel frattempo il processo di industrializzazione, la crescita dei volumi di beni e servizi e l’incremento del giro d’affari avevano reso indispensabile la presenza di più personale nelle banche, negli uffici amministrativi, commerciali e legali, nelle redazioni, negli studi professionali, nelle aziende. Certo, si trattava anche di imparare a battere a macchina, ma in questo le donne si rivelarono da subito delle ottime allieve.
Nel 1881 la Christian Association organizzò il primo corso di dattilografia a cui aderirono solo otto donne e tutte superarono brillantemente l’esame, nonostante le prove fossero state più lunghe e severe rispetto a quelle dei colleghi.
Da quel momento sempre più donne frequentarono i corsi di dattilografia organizzati in tutta l’America. Basti dire che, a distanza di tre anni dall’introduzione della macchina per scrivere, oltre sessantamila di loro stavano già imparando a battere sui tasti in modo professionale. Secondo il Census Bureau, già nel 1910 l’81% dei dattilografi professionisti era rappresentato dal gentil sesso. Si verificò dunque un inesorabile passaggio di consegne: gli incarichi impiegatizi di bassa qualifica, con carichi di lavoro provvisori e con mansioni di semplice riscontro e compilazione, vennero gradualmente abbandonati dai colletti bianchi in favore delle donne. E tradizionali posti maschili, quali quelli dello scribano, del calligrafo o dai cosiddetti mezze maniche, così chiamati per la mezza manica di telaccio nero indossata per non rovinare la giacca con l’inchiostro, sparirono del tutto. Non che questo passaggio di consegne fu cosa semplice. Al contrario venne vissuto all’inizio come situazione non solo imbarazzante, ma contraria all’austerità del luogo di lavoro, e richiese pertanto profonde modifiche sia a livello organizzativo che di mentalità. In ogni caso fu il progresso a imporre tale inevitabile cambiamento. La macchina per scrivere si rivelò da subito uno strumento perfetto per le nuove impiegate, quasi fosse stato costruito su misura per le mani di una donna, snelle e veloci, quindi in grado di adattarsi meglio ai tasti stretti delle prime tastiere. Per scrivere con continuità e senza errori erano inoltre necessarie doti prettamente femminili quali la precisione, la pazienza, la perseveranza e lo spirito di sacrificio. C’erano insomma tutti i presupposti affinché le dattilografe s’affermassero con il tempo nei loro posti di lavoro diventando preziose e insostituibili collaboratrici. Di pari passo con la loro crescita professionale andò quella familiare e sociale. Scrivere a macchina per quasi tutta la giornata significava togliere tempo alla famiglia, dunque cambiarne gli equilibri – in alcuni casi distruggendola – ma anche entrare in contatto lavorativo con un mondo prettamente maschile, stravolgendo anche in questo caso equilibri e abitudini. Le prime dattilografe venivano comunque viste come simbolo d’iniziativa, intraprendenza e indipendenza, così da diventare addirittura testimonial di moda. E in effetti queste donne resero possibile una vera e propria rivoluzione nell’industria dell’abbigliamento. Ciò che indossavano loro voleva indossarlo anche la figlia dell’imprenditore o del capo ufficio, ma anche quella dell’agricoltore.
Ciò che usavano loro per lavoro, la macchina da scrivere appunto, vollero iniziare a usarlo anche le donne di casa, non fosse altro che per sentirsi più emancipate. Non è un caso se la Remington mise in commercio una linea con forte potere attrattivo sul gentil sesso, decorata con fiori e ornamenti artistici. Il nuovo rapporto in ufficio fra datore di lavoro e segretaria, “la macchina per scrivere girl” che nella iconografia soft-core all’inizio del xx secolo diventa un cult, fece addirittura nascere una nuova linea di cartoline illustrate e cartoni animati. E persino di barzellette. Ne riportiamo solo una, non certo per far sorridere quanto per sottolineare il fatto curioso che all’origine il termine “typewriter” veniva usato indistintamente sia per indicare il mezzo meccanico, sia chi lo usava:
Commesso: “Credevo che avesse già una macchina per scrivere…”. Imprenditore: “Sì, ma l’ho sposata”.
La figura della dattilografa, nell’immaginario collettivo l’amante del capo ufficio, entrò di prepotenza addirittura nel mondo nel mondo della pornografia. A partire dagli anni Trenta iniziarono infatti a spopolare i cosiddetti “Tijuana Bibbie”, fumetti “sporchi” prodotti in Messico appositamente per il mercato americano.
Tratto dal libro MACCHINE PER SCRIVERE
Uomini, storie e invenzioni dalle origini ai giorni nostri.