La prima fabbrica in un immagine del 1909
All’Esposizione Universale di Torino del 1911 l’Olivetti si presenta come la prima e unica fabbrica italiana di macchine per scrivere e il suo prodotto, la M1, è così descritto:
“Macchina da scrivere di primo grado. Disegni originali, scrittura visibile, tastiera standard, bicolore, tabulatore decimale, tasto di ritorno, marginatore multiplo, lavorazione moderna di assoluta precisione” Non sappiamo come l’estroso ingegnere abbia condotto la progettazione della M1; sappiamo però che il 12 agosto 1908 spedisce da Milano, dove ha sede la CGS, una lettera alla moglie Luisa Revel scritta con il prototipo della nuova macchina che sarà poi prodotta e commercializzata dalla Ing. C. Olivetti & C., fondata a Ivrea due mesi e mezzo più tardi, il 29 ottobre 1908. Il prototipo si ispira chiaramente alle macchine Remington e Underwood allora in uso; in particolare è probabile che Camillo, avendo visitato la Underwood di Hartford (Connecticut) nel dicembre 1908, in occasione del suo terzo viaggio americano, abbia guardato con particolare attenzione ai modelli di questa fabbrica. Si sa che al suo rientro da questo viaggio rivede completamente il progetto della macchina e introduce varie innovazioni soprattutto nei cinematismi, cioè nell’insieme degli organi di trasmissione del movimento dal tasto alla leva dei caratteri. L’ingegnere trova nuove soluzioni che garantiscono maggiore facilità e docilità di scrittura, tanto che può registrare vari brevetti in Europa e America Il prodotto della “prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere” è accolto dal pubblico con una certa curiosità, ma sul mercato fatica ad imporsi.
La macchina per scrivere è considerata un prodotto ad alta tecnologia e i produttori più affermati sono americani o tedeschi: è difficile dare credito a una sconosciuta ditta italiana. La svolta avviene nel 1912, quando l’Olivetti, battendo la concorrenza della Remington, vince una gara per la fornitura al Ministero della Regia Marina di 100 macchine per scrivere. Il prezzo della M1 è superiore a quello della concorrente americana – 550 lire contro 450 – ma il meccanismo di scrittura inventato da Camillo è considerato più docile e giustifica la differenza di prezzo.
La M1 presenta una linea sobria ed elegante; lo stesso Camillo afferma che “l’estetica della macchina è stata particolarmente curata. Una macchina per scrivere non deve essere un gingillo da salotto, con ornati di gusto discutibile, ma avere un aspetto serio ed elegante nello stesso tempo”.Il successo con la Regia Marina e la fornitura di varie macchine alla casa reale aprono alla Olivetti l’accesso ad altre amministrazioni pubbliche e a imprese ed enti pubblici e privati. Nel 1913 la produzione delle M1 avanza al ritmo di 23 macchine alla settimana e i dipendenti della Olivetti salgono dai 75 dell’anno precedente a 110. Camillo investe nella struttura commerciale: in Italia pone le basi della rete commerciale aprendo le prime filiali e rappresentanze; al pittore Teodoro Wolf Ferrari affida la realizzazione di un manifesto con l’immagine di Dante che mostra una M1; su giornali e riviste compaiono campagne pubblicitarie con annunci che probabilmente egli stesso redige puntando sulla qualità di un prodotto italiano che non ha nulla da invidiare ai migliori prodotti stranieri…Nel 1912 la M1 è offerta a 500 lire per il modello base e 575 per quello con tabulatore decimale e gradualmente le vendite iniziano a crescere, ma già nel 1914 – anche se non mancano le difficoltà finanziarie legate alla fase di avviamento della produzione – Camillo pensa di progettare un nuovo modello. L’inizio della guerra 1915-18 cambia lo scenario e l’azienda deve convertire gli impianti alle forniture militari, cessando di fatto la produzione delle M1 che riprende solo nel 1919. Nel complesso, tra il 1911 e il 1920 la produzione delle M1 raggiunge circa le 6.000 unità.
Dopo una prima fase di avvio, negli anni successivi l’azienda di Ivrea crebbe rapidamente, ampliando e diversificando l’offerta sia in Italia che nel mondo. Alla fine degli anni Venti raggiunse una produzione annua di 13.000 macchine, debuttando, a cavallo tra gli anni Quaranta, anche nel settore delle telescriventi, delle calcolatrici, dei mobili e delle attrezzature per ufficio.
La famiglia Olivetti
Nel 1920 la M1 viene sostituita da un nuovo modello, la M20. che troverà sbocchi in nuovi mercati internazionali, europei e sudamericani soprattutto.
E’ un momento delicato per la politica e la società italiana, ma la domanda di macchine per scrivere è sostenuta e incoraggia Camillo Olivetti a guardare con fiducia al mercato internazionale. La M20, progettata dall’ingegnere in collaborazione con il suo direttore generale tecnico, Domenico Burzio, viene presentata alla fiera internazionale di Bruxelles, dove nello stesso 1920 la ditta apre la sua prima “filiale autonoma” all’estero.. La nuova macchina presenta varie innovazioni, tra cui il carrello che scorre su guida fissa, una novità che inizialmente suscita perplessità, ma che poi viene adottata anche dai concorrenti.
Come la M1, la M20 è di norma montata su “un vassoio” in legno con maniglie per agevolare gli spostamenti ed è protetta da un grande coperchio metallico. Nell’insieme la macchina “è molto ben riuscita”, dichiara Camillo Olivetti, e a differenza di quanto avveniva con la M1, venduta essenzialmente in Italia, viene esportata in numerosi mercati europei ed extra-europei.In Italia le vendite sono sostenute da campagne pubblicitarie che esaltano con immagini e testi naif l’italianità della macchina, la sua robustezza e la docilità della tastiera; escono anche manifesti disegnati da noti cartellonisti come Pirovano e Dudovic Lo stile grafico e pubblicitario è comunque assai lontano da quello di alto profilo che si affermerà in Olivetti a partire dagli anni Trenta.
La produzione di M20 nel 1922 supera i 2.000 esemplari, che diventano 4.000 nel 1924, 8.000 nel 1926 e 13.000 nel 1929 alla vigilia della grande depressione. Parallelamente nel decennio il numero dei dipendenti sale da circa 200 a oltre 800. La piccola ditta familiare si appresta a divenire una grande industria moderna grazie anche al contributo di Adriano, figlio di Camillo, che aggiorna la fabbrica secondo i canoni della organizzazione scientifica del lavoro. Nonostante la crisi economica mondiale la Olivetti investe per rafforzare la struttura commerciale in Italia e all’estero. Si costituisce a Barcellona la prima consociata industriale, la S.A. Hispano Olivetti. Tra le novità organizzative vi è la creazione nel 1929 di un Ufficio Progetti e Studi che affianca Camillo Olivetti nel delicato lavoro di progettazione dei nuovi modelli, compito che fino ad allora il fondatore aveva condotto quasi esclusivamente da solo. Nel 1930 esce una nuova macchina per scrivere, la M40.
Per aggiornare l’M20 Camillo lavora con Gino Levi Martinoli a un nuovo modello che prende corpo tra il 1929 e il 1930: nasce così la M40, che rimarrà in produzione fino al 1948, seppure con modifiche (una M40 seconda versione esce nel 1937-38; un’altra versione negli anni ’40).La transizione alla nuova macchina non è indolore, perché i tempi di avvio in produzione della M40 si rivelano più lunghi del previsto. Nel novembre 1929 Adriano Olivetti scrive al padre spiegando che la produzione in serie di grandi volumi richiede una preparazione attenta e laboriosa; l’allestimento delle linee di produzione procede a rilento perché per ottenere la massima precisione dell’attrezzaggio occorre il triplo del tempo rispetto alle soluzioni approssimative adottate 10 anni prima per la M20.
Nella fase preliminare al lancio della M40, un ruolo delicato è svolto dalla OMO (Officina Meccanica Olivetti) creata da Camillo nel 1926. A questa struttura viene affidato il compito di costruire i primi 20 esemplari del nuovo modello per verificarne il funzionamento e correggere eventuali piccoli difetti. La OMO realizza inoltre le attrezzature necessarie per la produzione di serie, che viene avviata nel 1931. La M40 ancor più della M20 incontra il favore dei clienti che apprezzano il notevole progresso della qualità, la velocità di scrittura e la leggerezza di tocco della tastiera. Con questa macchina la Olivetti può permettersi di affrontare la concorrenza americana anche nei mercati più esigenti. Tuttavia gli inizi sono difficili: la grande depressione fa sentire i suoi effetti in tutti i mercati e solo nel 1933 la produzione di macchine per scrivere Olivetti supera i livelli del 1929 e raggiunge le 15.000 unità (senza contare 9.000 esemplari della MP1, la portatile uscita nel 1932). In quello stesso 1933 viene pubblicata a cura del “Comitato per il prodotto italiano” la relazione della “Commissione speciale nominata per l’esame tecnico della macchina da scrivere Olivetti Modello 40”. Il documento analizza in dettaglio le caratteristiche della M40 e arriva a conclusioni molto positive: particolarmente apprezzati sono il meccanismo cinematico che garantisce “una elevata ed uniforme velocità di scrittura”, la scelta accurata dei materiali, l’esattezza delle lavorazioni, il carrello a guida fissa e in generale “la genialità innovatrice di ideazione che caratterizza la maggior parte degli organi e meccanismi della M40”. La progressiva affermazione della M40 sul mercato italiano e all’estero culmina nel 1942, quando la produzione di macchine standard Olivetti si avvicina alle 38.000 unità. Ma la guerra incide negativamente sui mercati e la fabbrica ancora una volta deve in parte riconvertirsi alle produzioni belliche.
Nei difficili anni del dopoguerra la M40 resta il modello standard dell’offerta Olivetti, affiancato dalla semi-standard Studio 42, uscita nel 1935, e dalla portatile MP1 del 1932. E’ il momento di rinnovare radicalmente l’offerta con prodotti adeguati al nuovo contesto economico e sociale: l’Olivetti lo farà con una sequenza di prodotti di straordinario successo: la Lexikon 80 (1948), la Lettera 22 (1950) e la Studio 44 (1952), macchine frutto della genialità del progettista Giuseppe Beccio e del designer Marcello Nizzoli L’Olivetti assume la forma giuridica di Società anonima.
Cartolina pubblicitaria Nizzoli
A fine anno Adriano Olivetti è nominato Direttore Generale Un contributo fondamentale a questa espansione giunse, a partire dal 1933, da Adriano Olivetti, figlio di Camillo, che impresse uno stile e una cultura che faranno dell’azienda un esempio unico nella storia industriale italiana ed europea.
Sotto la guida di Adriano, negli anni Cinquanta, la Olivetti registrò una crescita straordinaria, creando modelli che divennero un simbolo dell’Italian style, come la Lexikon 80, la Lettera 22 – forse la portatile più famosa – la calcolatrice Divisumma, la MC 24. La Olivetti passò da 200 dipendenti nel 1924 a 800 nel 1933, da 2000 nel 1938 a 4000 nel 1942. Per mantenersi grande ed esplorare le frontiere del progresso tecnologico l’impresa assunse un respiro internazionale: fra il 1929 e la seconda guerra mondiale Olivetti creò proprie consociate in Belgio, Argentina, Brasile, Francia e Spagna. Già in quello stesso 1929 la consociata spagnola si configurò come un’autonoma unità produttiva a ciclo integrale, mentre le altre mantennero per un certo tempo un profilo più legato alla distribuzione commerciale, pur se corredate da officine di riparazione e di ricondizionamento di prodotti (in epoca successiva anche queste divennero veri e propri stabilimenti industriali).
Se gli anni fino al 1935 furono contrassegnati da una semplice differenziazione di prodotto nel campo delle macchine per scrivere (alle macchine standard si affiancarono le prime portatili e semistandard), gli anni dal 1935 al 1952 significarono una svolta verso una più ampia diversificazione produttiva. Fu l’epoca delle macchine contabili, di quelle da calcolo, delle telescriventi, dei duplicatori (gli antenati delle fotocopiatrici) e dei mobili per ufficio. A cinquant’anni dalla fondazione, la Olivetti arrivò a impiegare oltre 24.000 dipendenti, divenendo leader incontrastata della tecnologia meccanica. In quegli anni, la ditta compì la prima importante svolta tecnologica investendo con lungimiranza nella tecnologia elettronica. Adriano si rese conto di come fosse necessario investire sul progresso tecnologico e, per questo, sostituì i collaboratori del padre, venuti dalla gavetta, con le generazioni di quelli che chiamò “i centodieci e lode”.
Nel 1952, a New Canaan (Connecticut) aprì un primo laboratorio di ricerca. Poi venne, in accordo con l’Università di Pisa, il centro studi di Barbaricina. Infine fu l’epopea dello stabilimento di Borgolombardo, dalle cui viscere uscì, nel 1959, il primo grande elaboratore elettronico italiano: l’Elea 9003. Nello stesso anno Olivetti acquisì la statunitense Underwood, di Hartford, grande impresa di macchine per scrivere che tanto aveva suscitato l’interesse di Adriano (per la modernità dei processi produttivi, la qualità dei prodotti ecc…) quando l’aveva visitata nel 1925, durante il suo primo e forse più noto viaggio negli Stati Uniti. Nel 1960, con Telettra e Fairchild Camera and Instruments, fu fondata la SGS, ovvero la prima società europea per la produzione di semiconduttori, oggi divenuta STMicroelectronics.
L’improvvisa morte di Adriano Olivetti, nel 1960, e una serie di difficoltà finanziarie legate anche all’acquisizione della Underwood e agli ingenti investimenti, costrinsero la dirigenza a cedere la Divisione Elettronica. Sul listino di Piazza Affari l’azienda debuttò proprio nel 1960.
Articolo Gente 11 marzo 1960
Dal 1924 al 1960 il valore del capitale investito dalla Olivetti era salito di circa 22 volte in termini reali. Alla morte di Adriano l’azienda contava circa 25.000 addetti di cui 14.500 in Italia (Torino, Massa, Pozzuoli) e circa 10.000 nel Canavese (Ivrea, Agliè, Caluso), ma vantava anche grandi stabilimenti in Europa (Barcellona e Glasgow), America Latina (Buenos Aires e San Paolo) e Stati Uniti (Hartford).
La famiglia, che proprio dopo la quotazione in Borsa aveva mantenuto un saldo controllo della ditta, nel 1964 aprì il capitale a un gruppo di banche e imprese italiane. Nello stesso anno Bruno Visentini venne nominato Presidente della Società, carica che mantenne, salvo un’interruzione legata alla sua nomina a incarichi governativi, fino al 1983, quando gli successe Carlo De Benedetti. Nel 1965 Olivetti presentò sul mercato un calcolatore da tavolo programmabile molto innovativo, il P101, antesignano del personal computer. Ma la transizione all’elettronica, in anni di forte inflazione e di alti tassi di interesse, risultò particolarmente onerosa: la crescente competizione internazionale accentuò le difficoltà e, verso la fine degli anni Settanta, la situazione finanziaria divenne critica. Nel 1978 Carlo De Benedetti investì nell’azienda assumendone la responsabilità operativa. Iniziò per la Olivetti, insieme a un lungo periodo di ristrutturazione, anche un nuovo ciclo di sviluppo. Vennero lanciati nuovi prodotti: la prima macchina per scrivere elettronica (Et 101, del 1978) e il primo personal computer (M20, 1982). Nei corso degli anni Ottanta l’azienda accelerò il processo di crescita ricorrendo a numerose acquisizioni e operazioni di venture capital tra le quali quella con l’americana AT&T (1983). All’inizio degli anni Novanta, intuito il forte potenziale di sviluppo delle telecomunicazioni, la Olivetti, insieme con diversi investitori – fra cui alcuni dei maggiori operatori mondiali del settore, come la Omnitel -, costituì una società con l’obiettivo di operare nella telefonia mobile. La Società diventò operativa a fine 1995 dopo l’acquisizione della relativa licenza. Nello stesso anno, secondo le stesse linee strategiche, fu creata Infostrada per operare nella telefonia fissa. Si trattò di due iniziative che cambiarono, nel giro di pochissimi anni, il volto dell’impresa e la proiettarono verso una nuova fase di sviluppo.
Nel corso degli anni Novanta, la Olivetti fu costretta a una drastica ristrutturazione causata dall’intensificarsi della competizione globale, dalla caduta dei prezzi e dei margini in tutta l’industria informatica mondiale, dalla debolezza del mercato europeo, e, in particolare, di quello italiano. A partire dal settembre 1996, in un momento particolarmente difficile per l’azienda, Olivetti intraprese, sotto la guida di Roberto Colaninno, un processo di profonda trasformazione che condusse a una decisa focalizzazione sulle telecomunicazioni e alla razionalizzazione delle attività informatiche. Tale trasformazione passò attraverso una strategia di alleanze internazionali e il riassetto della struttura aziendale. Nel febbraio 1999 la Olivetti e la controllata Tecnost annunciarono l’Opa su Telecom Italia, conclusasi poi con l’acquisizione di oltre il 52% del pacchetto per 31,5 milioni di euro. Allo stesso tempo l’azienda provvide alla cessione, richiesta dalle norme sulla concorrenza, delle sue partecipazioni in Omnitel e Infostrada a Mannesmann. Nel luglio 2001 Bell si accordò con i gruppi Pirelli e Benetton per cedere il suo pacchetto di controllo del capitale Olivetti. L’operazione fu perfezionata nel settembre 2001 e la Olimpia, partecipata da Pirelli, Edizione Holding (gruppo Benetton), Intesa-BCI e Unicredito, divenne il maggiore azionista di Olivetti con una quota di circa il 29%. I titoli della società, in seguito alla fusione con Telecom Italia, uscirono dal Mib30 il 12 marzo 2003.
Le vicende legate alla storia industriale della Olivetti sono soprattutto collegate alla sua capacità di porsi come motore e modello per la crescita della società, al di là delle sue funzioni di produttore di oggetti e beni di consumo. Adriano Olivetti, uomo di sconfinata cultura e di grande senso pragmatico, si rese conto che per cavalcare l’innovazione occorrevano almeno due fattori basilari: attrarre le persone più colte e preparate, garantendo loro i maggiori compensi e la libertà di proporre e realizzare le loro idee; progettare e realizzare una formazione capace di preparare al futuro, ossia incentrata sulle competenze anziché sulle conoscenze. Prezioso per gettare uno sguardo sulla complessità delle strategie messe in atto, sulla genialità del suo fondatore e dei suoi collaboratori, sulla modernità del design, ma soprattutto sull’innovazione del “modello umano” elaborato nell’azienda di Ivrea è il volume di Pietro Condemi, La rosa di Jericho. Il paradigma olivettiano per una nuova cultura della formazione. Dal volume emerge con forza che Adriano andava oltre la sola dimensione della formazione aziendale, interessandosi del territorio, dell’urbanistica, delle scuole, delle abitazioni, persino della mobilità dei lavoratori, disseminando cultura attraverso la casa editrice Edizione di Comunità con l’omonima rivista, le iniziative dell’Irur per far nascere nuove imprese su tutto il territorio nazionale, avocando a sé anche una responsabilità di tipo sociale. Il fine della Comunità della Olivetti era quello di “affratellare gli uomini”, “reprimere gli evidenti contrasti o conflitti”, abituali in un’organizzazione economica, e di impedire (come sottolineava il suo ideatore) “una vita frazionata e priva di elementi di solidarietà”. Al dipendente veniva offerta la casa: villette con giardino o appartamenti in edifici gradevoli, funzionali e moderni.
La “bella società” di Olivetti (praticamente una piccola città) prevedeva inoltre “educazione, formazione e sostegno” per i figli dei dipendenti, asili e asili-nido, colonie estive, iniziative culturali, una mensa (più di 10.000 pasti al giorno), assistenza medica, assistenti sociali e un centro di psicologia industriale per lo studio dei problemi psicologici connessi all’attività lavorativa. Nel Centro servizi sociali erano presenti una sala cinema, un centro culturale e una sala congressi. Furono anche realizzati dei documentari (prodotti fra gli anni ’50 e ’90), con registi illustri e collaboratori eccellenti (tra questi il compositore Luciano Berio), e dei telegiornali interni con tanto di mezzobusto e spot. La “genialità” di Olivetti è stata quella di conoscere gli uomini e valorizzarne le qualità meno percettibili all’apparenza. Nei complessi residenziali Olivetti nessuna fede religiosa, nessun partito politico, nessuna provenienza geografica erano discriminati. “Voglio anche ricordare come in questa fabbrica, in questi anni, non abbiamo mai chiesto a nessuno a quale religione credesse, in quale partito militasse o ancora da quale regione d’Italia egli e la sua famiglia provenissero”. Sono parole pronunciate da Adriano Olivetti ai lavoratori di Ivrea il 24 dicembre 1955. Gli stipendi erano ottimi. “La nostra comunità dovrà essere concreta, né troppo grande né troppo piccola, ma che dia alla persona umana quel rispetto della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori”. Insomma, un’utopia: anzi, una “bella società”.
Un’esperienza purtroppo mai più ripetuta, come spiega Giorgio Soavi, dipendente Olivetti e marito della figlia di Adriano, nonché autore del volume Adriano Olivetti. Una sorpresa italiana. Affidandosi a persone di grande valore (l’imprenditore era contornato da collaboratori che, scrive Soavi, non si accontentavano di “volare basso”) Adriano aveva capito come fosse auspicabile che, architettonicamente parlando, le pareti e i colori dell’ufficio, o quelle del posto di lavoro, non dovessero essere molto diverse da quelle di casa. Ma la fabbrica anche come oasi di creatività: dall’eccezionale disegno dei prodotti alla pubblicità, dalle grandi mostre a quei piccoli capolavori che erano gli opuscoli che accompagnavano i prodotti di Ivrea. Mai una frase fatta, distacco totale dalle mode del marketing, aristocrazia e omaggio severo alla chiarezza e al dettato tecnico. Per quanto concerne la cultura, non c’è dubbio che la Olivetti divenne nel tempo una straordinaria concentrazione di intelligenze e di saperi, con un marcatissimo imprinting aziendale. Da questo punto di vista (a partire dal 1926, con la creazione delle prime scuole interne) venne anzitutto stabilita la funzione ineludibile della formazione permanente delle risorse umane. Se è risaputo il ruolo svolto dal Centro Formazione Meccanici e dai successivi corsi di perfezionamento, forse è meno noto che si aveva cura di integrare la formazione tecnico-specialistica con quella umanistica, affiancando agli insegnamenti professionali quelli di materie come la storia dell’arte. Le stesse biblioteche di fabbrica e le conferenze che vi si svolgevano vanno considerate come frutto di tale scelta di valorizzazione continua dell’elemento umano in azienda.
Non vanno poi dimenticati l’allestimento degli stand Olivetti nelle principali fiere internazionali e le famosissime architetture di interni dei negozi Olivetti (opera di Gian Antonio Bernasconi, Ugo Sissa, Carlo Scarpa, BBPR, Leo Lionni e Giorgio Cavaglieri per citarne alcuni). Basterà poi un solo e breve cenno per ricordare che in Olivetti, dietro diretto impulso di Adriano, si affermarono – sempre a supporto di scelte aziendali decisive – discipline che, solo in epoca più tarda, avrebbero trovato nel nostro Paese una consacrazione anche accademica: l’economia di impresa (con Franco Momigliano), la sociologia industriale (Luciano Gallino e la sua scuola), la psicologia del lavoro (Cesare Musatti e i suoi allievi).
Una radiografia affascinante delle “fabbrica” Oliveti ci viene invece offerta dalvolume Uomini e lavoro alla Olivetti, curato da Francesco Novara, responsabile del Centro di psicologia Olivetti fino al 1992, e da Renato Rozzi, che lavorò nello stesso Centro negli anni Sessanta. L’immagine che ne traspare è quella di una fabbrica vista come fosse una persona, e in cui il cervello era Adriano, industriale e uomo di somma intelligenza creativa. Adriano possedeva libertà intellettuale e politica, aveva la capacità ed il genio naturale di tirar fuori dagli uomini anche quel che loro non sapevano di possedere. “Io non ho passato in me. In me non vi è che futuro”. Si riferiva all’impresa. Guardava sempre avanti, era un ricercatore nato. Ma non ripudiava il passato, che ben conosceva nelle forme dell’arte e della scienza. Con Adriano e per Adriano hanno lavorato architetti famosi o che famosi divennero in seguito, designers, scrittori, poeti, sociologi, scienziati della politica e dell’organizzazione industriale, tra cui Paolo Volponi, Franco Momigliano, Luciano Gallino, Geno Pampaloni, Giovanni Giudici, Giorgio Fuà, Bobi Bazlen, Ludovico Quaroni, Franco Ferrarotti, Furio Colombo, Tiziano Terzani, Franco Fortini, Bruno Zevi, Ottiero Ottieri, e tanti altri che, curiosamente, quando se ne andarono dall’Olivetti non entrarono più in altre aziende, ma fecero altri mestieri, come ha sottolineato il giornalista Corrado Stajano de “L’Unità”. L’azienda non licenziava, al di là di un piccolo turnover fisiologico. Riusciva a farlo attraverso un lungo processo di riconversione del personale. Tribolato e drammatico fu il passaggio dalla meccanica all’elettronica. Ma il suo modo di seguire e formare le persone era proiettato in avanti. La Olivetti sapeva sperimentare già allora modelli formativi avanzati che il sistema nazionale non era riuscito ancora a darsi. L’azienda di Ivrea aveva capito più di mezzo secolo fa l’importanza della ricerca. I servizi sociali della Olivetti furono modelli inarrivabili: le madri e i bambini furono tutelati con dedizione. E poi, le innovazioni olivettiane del lavoro – di cui il Centro di psicologia è stato un elemento centrale – hanno introdotto soluzioni organizzative valide ancora oggi: il lavoro era modificabile solo tenendo conto degli uomini che lavorano, una proposizione politica decisiva quarant’anni fa, nel periodo della maggiore tensione sindacale.
Due sono i concetti fondamentali che ispirarono Adriano Olivetti nella sua visione imprenditoriale. In primo luogo egli era convinto, fin dagli esordi della sua attività, che in una società ancora tendenzialmente arretrata, solo la “fabbrica” poteva essere il “moderno principe” dello sviluppo economico e sociale, capace di innovare e creare ricchezza sociale. In secondo luogo, la fabbrica doveva avere come fine fondamentale la propria crescita, cioè lo sviluppo quantitativo e qualitativo dei suoi fattori produttivi (capitale e lavoro). Di conseguenza, Adriano operava affinché l’impresa massimizzasse quello che oggi noi chiamiamo “il valore aggiunto”, da tradursi in utili non distribuiti ma destinati ad autofinanziare lo sviluppo dell’impresa, in stipendi e salari di ottimo livello tali e perciò capaci di motivare l’impegno lavorativo, in formazione continua delle risorse umane, in servizi sociali ed assistenziali per i lavoratori e, da ultimo, anche in riduzioni di orario a parità di salario complessivo. Per tutto il periodo in cui fu alla guida della società i dividendi degli azionisti si attestarono su livelli modesti e comunque mai superiori agli interessi riconosciuti ai depositi in conto corrente accesi dai dipendenti presso la società stessa.
Rifondare la società attraverso i suoi legami territoriali: questa l’idea innovativa di Adriano Olivetti, che, in effetti creò, nel 1952, 11 centri comunitari nel Canavese e altri a Terracina e Matera. “L’idea fondamentale della nuova società è di creare un comune interesse morale e materiale, un’organizzazione basata sulla partecipazione, per offrire risposte concrete alla comunità, un conveniente spazio per andare oltre il concetto di fabbrica. Che è servizio e non più macchina, con nuove caratteristiche, anche ambientali”. Parlava così Adriano Olivetti, quando si riferiva allo spazio pensato per i propri dipendenti. Egli volle che tra la fabbrica e il territorio in cui questa era insediata si stabilisse un rapporto fortissimo di integrazione reciproca. Quasi sempre, nel Canavese, venne privilegiata la scelta di assumere in azienda più persone appartenenti al medesimo nucleo familiare; tale scelta creò ovviamente malumore in chi non veniva assunto, ma era finalizzata a una sapiente ricerca dell’accrescimento delle capacità di consumo e risparmio delle famiglie presenti in Olivetti, le quali – in conformità con il pensiero di Adriano – avrebbero fatto da volano per una crescita complessiva delle attività economiche esterne all’azienda stessa (commercio, edilizia, artigianato e via dicendo). Questa politica delle assunzioni venne anche attuata in modo da evitare quello che Adriano riteneva il pericolo dell’urbanizzazione selvaggia: la maggior parte degli assunti in Olivetti tra il 1924 ed il 1960 continuarono a risiedere nei comuni di origine del Canavese grazie a incentivi, a un efficiente sistema di trasporti semi-gratuiti e a prestiti agevolati per la ristrutturazione delle abitazioni.
Straordinaria figura di industriale-intellettuale, Adriano Olivetti chiamò a Ivrea architetti e intellettuali per progettare insieme a loro lo sviluppo della ditta, consapevole delle responsabilità sociali dell’industria e del peso che essa ha sulla configurazione e modificazione di un territorio, delle sue possibilità di qualificazione o di degrado delle aree scelte per l’insediamento. Nella metà degli anni Trenta iniziò lo sviluppo dell’asse di via Jervis che portò, nell’arco di venticinque anni, alla creazione di una vera e propria città nuova olivettiana. I principali protagonisti furono gli architetti milanesi Figini e Pollini, che progettarono gli ampliamenti della fabbrica, la fascia dei servizi sociali, l’asilo nido e alcune abitazioni per impiegati. Il loro lavoro, insieme a quello di altri professionisti di fama internazionale, portò alla creazione di un esempio unico all’interno del panorama architettonico italiano contemporaneo.
Lo sviluppo urbanistico e architettonico di Ivrea nel Novecento è strettamente legato alla storia della Olivetti. La prima fabbrica in mattoni rossi venne edificata in una zona rurale, non lontano dall’abitazione di Camillo Olivetti, l’ex convento di San Bernardino. Nel rapporto con il territorio vanno individuate tre fasi. La prima, 1924-1935, è quella in cui l’impresa ha creato istituzioni e servizi utili alla fabbrica, come la Fondazione Domenico Burzio, l’ambulatorio di fabbrica, la mensa del centro agrario Olivetti. Una seconda fase va dal 1936 al 1955 e la si può definire della “supplenza tecnica ai governi locali”: dall’elaborazione del piano regolatore regionale, ai piani regolatori di Ivrea del 1938-1942 e poi del 1951-1955, alla costruzione dell’ospedale civile della città, all’infrastrutturazione materiale dell’area, avvenuta a carico dell’azienda. La terza e ultima fase, dal 1956 al 1960, può definirsi come quella della “gestione diretta” del territorio da parte dell’azienda, in quanto nelle giunte comunali furono massicciamente presenti dirigenti, impiegati, operai che avevano l’azienda stessa come datore di lavoro. Mediante questo rapporto costruito con il Canavese si può affermare che raramente, nel suo processo storico, un’azienda si è tanto identificata con l’area in cui ha stabilito i suoi quartieri generali.
La storia di quegli anni in Olivetti dimostrò la possibilità di realizzare un progetto che ponesse come reale motore d’impresa la cultura e l’etica, che ne permettesse l’attualizzazione attraverso la formazione e l’esempio incarnato dalla proprietà e dal management, e che cavalcasse l’innovazione tecnologica e organizzativa favorendo al tempo stesso lo sviluppo completo delle persone. Su queste basi la Olivetti ha prodotto e distribuito utili eccezionali, inventando il concetto di corporate image e un nuovo modo di fare pubblicità, un nuovo design industriale e una nuova architettura industriale e abitativa. Ma anche prodotti innovativi, il primo personal computer al mondo, un nuovo modello di relazioni sindacali, nuovi organismi di gestione aziendale e tenendo a battesimo la nascente sociologia italiana. Appare quindi di grande attualità la rilettura di quell’esperienza imprenditoriale, etica e responsabile. Tant’è che i suoi principi ispiratori sono stati recentemente riproposti dalla Commissione Europea nel suo Libro Verde, Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese. Se il “fattore umano” è alla base dell’innovazione e della creatività, e se si riconoscono questi elementi come strutturali per competere sui mercati globali, la Olivetti di quegli anni fornisce idee e prassi per affrontare la sfida.